|
"Nel caso siate in trattamento con medicine o altro a causa di uno
stato di depressione consultate un medico prima di comprare uno
di questi dischi"
(The
Penguin Guide to Jazz)
"Volevo che l'album iniziasse con
un solo di chitarra elettrica, e il mio modello è stato ...
non so se hai mai ascoltato un disco di Michael Mantler; un "jazz
cameristico" molto austero, severo; la chitarra sui suoi dischi ha
sempre un'aria molto solitaria - quasi una chitarra rock, ma non proprio
- e questo era il feeling che volevo evocare all'inizio dell'album."
(Mike Keneally, dal CD-Intervista Nonkertalk)
Michael Mantler
Una della sorprese più gradite degli ultimi tempi é
stata senz'altro la ristampa in formato CD di alcuni tra gli album più
belli e originali di Michael Mantler - un'irreperibilità che ci
aveva finora dissuaso dall'occuparcene su queste pagine. Caratterizzata
da un suono drammatico, austero e dolente, con un fraseggio che distilla
il pensiero con bel senso compositivo dell'economia, la tromba di Mantler
ricorda più lo strumento della sala da concerto che non la bruciante
estroversione e il senso di abbandono del jazz; un genere peraltro amatissimo,
frequentato in gioventù accanto a musicisti del calibro di Cecil
Taylor e poi, per quasi vent'anni, nella band dell'allora consorte
Carla Bley. Mantler è però soprattutto un compositore
- non di rado assente quale voce strumentale sui propri dischi - dotato
di una cifra stilistica riconoscibilissima indipendentemente dal tipo
di strumentazione usata: dall'orchestra elettronica creata dalle
tastiere, sequencer e drum machine dell'exzappiano Don Preston
su uno scurissimo Alien allo strepitoso e versatile gruppo di Live,
con la batteria del Pink Floyd Nick Mason e il basso e il piano
dell'ex Henry Cow John Greaves, dall'orchestra (vera) di Many
Have No Speech, sulla quale si stagliano le voci di Jack Bruce
e Marianne Faithfull, agli adattamenti dei testi di Edward Gorey
di The Hapless Child, affidati all'amatissima voce di Robert
Wyatt. Proprio i nomi appena citati ci dicono di una profonda sensibilità
di Mantler nei confronti della musica rock: pochi compositori hanno riservato
un ruolo altrettanto ampio alla chitarra elettrica - strumento scelto
sempre con convinzione, sia detto chiaramente, e non quale esca
populista - e a delle voci tanto espressive, inconfondibili e pochissimo
convenzionali come quelle di Wyatt e Bruce.
Arrivato a questo punto il lettore si starà probabilmente ponendo
la fatidica domanda: "se Mantler è così bravo com'è
che non l'ho mal sentito nominare?" Non troppo difficile dare una
riposta. Classificato quale musicista jazz Mantler non lo è per
nulla, la qual cosa ha non poco disorientato i suoi recensori "naturali";
si prenda il caso di Silence: voci di Wyatt, Carla Bley e Kevin
Coyne, adattamento di un lungo lavoro del commediografo inglese Harold
Pinter, la chitarra elettrica di Chris Spedding al limiti del feedback
e anche oltre (ce lo ricordiamo Chris Spedding, no? Nucleus, Jack Bruce
Band e mille altre cose - l'uomo che produsse il primo demo del Sex Pistols);
ed è nel campo del rock che Mantler ha trovato un atteggiamento
più aperto e disponibile, talvolta entusiasta. C'è il fattore
che gli statunitensi chiamano unbinability - niente paura: il bin
essendo l'espositore degli album divisi per generi, la parola designa
il concetto "dove lo metto questo disco?"; coerenza della cifra
stilistica, estrema variabilità delle situazioni strumentali: una
buona ricetta per un sicuro disastro commerciale, ma un approccio che
è proprio l'opposto di quel "fare i dischi con lo stampino"
che poco ci piace. Non manca poi l'elemento "caratteriale":
per nulla amante dei tour e delle interviste, Mantler non è personaggio
pittoresco né artista ruffiano (quel tipo di musicista a proposito
del quale si dice che "è bravo a dirti quanto è bravo").
Sia consentita in propositi una nota personale. Era la metà degli
anni '80 quando ci recammo al festival jazz di Roccella Jonica per assistere
a un concerto della Carla Bley Band; arrivati con leggero anticipo
(circa sette ore) ci trovammo fortunosamente ad assistere alle prove,
che venivano effettuate nel cortile di una scuola. Notato che il synth
della Bley era del tutto inaudibile ci convincemmo che il cut-off del
filtro fosse settato troppo basso e provammo il bisogno irrefrenabile
di comunicario a Mantler, che passava accanto a noi. Riuscimmo solo a
dire "Il synth non si sente" prima di essere investiti da un
"LO SO!" (in inglese) - Mantler è anche un tipo atletico,
da cui il soprannome di Big Jim che gli affibbiammo
in quell'occasione (ma non diteglielo). Tentammo di ricucire alla
fine del concerto, del quale aveva curato il missaggio, e fummo piacevolmente
colpiti dalla totale mancanza di quella cortesia fasulla e untuosa che
non è raro riscontrare nel comportamento di non pochi musicisti
in simili occasioni.
La qual cosa ha degli importanti risvolti estetici, come proveremo ad
argomentare partendo da un episodio avvenuto alcune sere fa. Assistevamo
a un concerto di un famoso quartetto d'archi crossover, la musica
era già abbastanza pietosa di per sé: un romanticismo (nel
senso deteriore) parecchio elementare, orecchiabile e misero, che si faceva
vanto - quale avanguardistica "modernità" - di una nudità
che testimoniava solo di una carente elaborazione; la misura fu colma
quando il leader annunciò "il prossimo brano, Winter";
parti una melodia qualunque, che la mente inevitabilmente associava a:
neve, silenzio, rami spogli, uccellini a corto di cibo ecc. Ripensammo
allora ai titoli di Mantler, la cui musica avevamo ascoltato per tutta
la settimana precedente: sull'album Movies (una ghiotta occasione,
ammettiamolo) gli otto titoli vanno da Movie One a Movie Eight;
stessa storia per i brani inediti di More Movies; i titoli vanno
da Movie Nine a Movie Fifteen. Pochi versi di Samuel
Beckett (poi musicati su Many Have No Speech) e una foto in
nitido e spettrale bianco e nero sono il corredo di Something There,
i cui titoli vanno da Seventeen a Twenty One. E anche una
recente sinfonia ha il nome tutt'altro che suggestivo di One Symphony.
Evidente l'intenzione di non sovraccaricare la musica di comode e "suggestive"
associazioni di immagini - e non trova ciò un parallelo, pur su
sponde stilisticamente lontanissime, nei titoli "matematici"
di Anthony Braxton?
Non pochi lavori di Mantler utilizzano testi preesistenti; ecco cosa ebbe
a dire il musicista a proposito di quelli di Many Have No Speech,
album che vede i versi di Ernst Meister e Philippe Soupault affiancarsi
a quelli del già citato Beckett: essi posseggono "una secchezza,
una precisione e un'economia di linguaggio che mi sono congeniali;
é anche molto importante che la parole siano astrazioni di
pensieri e sentimenti piuttosto che espressioni immediate delle esperienze
quotidiane di qualcuno." Mantler evita così la spettacolarizzazione
di importanti temi di carattere "esistenziale", su tutti l'incertezza
e la morte; quegli stessi temi che, trattati con ben diversa sensibilità
- e con ben altro apparato "coreografico" - ci colpiscono con
la stessa forza banalizzante dei cadaveri dei telegiornali, facendo spesso
la fortuna di quanti hanno scelto di sfruttare tali strategie con atteggiamento
che ci è parso spesso non esente dal sospetto di compiacimento
- il lettore scandagli nella memoria per trovare esempi di tali death
merchants. Imbevuto di cultura europea fino al midollo, l'austriaco
Mantler si pone quindi nel solco della tradizione della grande narrativa;
in ciò, com'è ovvio, del tutto agli antipodi della "letteratura
cannibale".
Michael Mantler nasce nel 1943 a Vienna; nel 1962 si trasferisce negli
Stati Uniti, dove rimarrà per quasi trent'anni, allo scopo di continuare
i propri studi musicali alla Berklee School di Boston. Fatta poi base
a New York, a partire dal '64 si trova immerso nella calda atmosfera del
free jazz caratteristica di quegli anni (ed è Mantler alla tromba
sul classico Liberation Music Orchestra del contrabbassista Charlie
Haden). Insieme alla futura moglie Carla Bley (separatasi dal pianista
Paul Bley, del quale conserverà il cognome) e a molti altri jazzisti
fonda la Jazz Composer's Guild e, allo scioglimento di quest'ultima,
la Jazz Composer's Orchestra. Lo scopo è evidente:
mettere a disposizione dei musicisti di jazz un ensemble orchestrale (e
un'etichetta discografia) che consenta la sperimentazione di strutture
ampie altrimenti fuori dalla portata dei singoli musicisti, ottenendo
anche finanziamenti da fondazioni culturali. Questo forte spirito di indipendenza
caratterizzerà sempre la coppia Bley/Mantler: ci sarà un'etichetta
personale (la Watt), uno studio di registrazione (il Grog Kill, a Willow,
New York), legami con altre indipendenti quali l'allora neonata Virgin,
la costituzione di un servizio di distribuzione per artisti piccoli e
piccolissimi (il New Music Distribution Service, nel cui catalogo era
possibile trovare nomi che andavano dai DNA a Roscoe Mitchell, e nei cui
uffici era di casa un giovane John Zorn). Il doppio album del '68 a firma
Mantler, The Jazz Composer's Orchestra, fu all'epoca discretamente
controverso: nomi quali Cecil Taylor, Pharoah Sanders e Roswell Rudd si
stagliavano su uno sfondo orchestrale dalle timbriche originali (cinque
contrabbassi!) che pareva in netta controtendenza rispetto allo "spirito
dei tempi"; il disco viene oggi considerato antesignano di lavori
quali quelli di Barry Guy con la London Jazz Composer's Orchestra
- e ci piacerebbe vedere quali accoglienze avrebbe la ristampa di 13,
per due orchestre e piano, unico lavoro che ancora manca all'appello,
se fosse, attribuito agli anni giovanili di (il lettore inserisca in questo
spazio un nome a piacere).
Ma quelli erano anche gli anni in cui il rock diventava adulto, e dello
sbarco dei Cream negli Stati Uniti; fu al Fillmore, in un concerto
che li vedeva dividere il palco con gli Electric Flag e il gruppo del
vibrafonista Gary Burton, che Mantler fece la conoscenza di Jack Bruce.
(Lo senti anche il bassista di Burton, Steve Swallow, che vendette subito
il contrabbasso per acquistare un bel basso elettrico, strumento del quale
è poi diventato uno dei massimi esponenti - il lettore provi ad
ascoltare uno dei tre album da lui incisi in coppia con la Bley.) Fu così
che Mantler invitò Jack Bruce a partecipare all'originalissimo
e monumentale Escalator Over The Hill ('72) di Carla Bley - che
qualche anno dopo entrò a far parte del gruppo di Bruce accanto
al Mick Taylor appena uscito dai Rolling Stones.
Le voci sovraincise di Jack Bruce, l'inconfondibile tromba di Don Cherry,
le tastiere di Carla Bley (piani, un organo spettrale, un clavinet che
sembra fare le veci di una chitarra) e un testo di Samuel Beckett sono
gli elementi costitutivi dello splendido No Answer ('74). Non pochi
critici blasonati ci andarono a sbattere il muso, anche dalle nostre parti.
E' un lavoro paragonabile, per intensità e profondità, a
quei libri che si aprono a notte tarda. Qualunque interpretazione si voglia
dare di questo lavoro di Beckett rimane identica la suggestione dell'album:
un sensazione di agghiacciante isolamento, di domande senza risposta,
il classico "guardare nell'abisso"; Bruce ne indaga il senso
(l'impossibile ricerca di un senso) con un'interpretazione vocale da antologia
- e si confronti la diversità del suo approccio nell'estratto presente
su Live. La recente ristampa di No Answer accoppia saggiamente
a quest'album l'altro lavoro con un lungo testo; il già citato
Silence ('77), storia dal linguaggio narrativo tipico di Pinter.
Tastiere della Bley, mobilissime percussioni di Wyatt, le dinamiche linee
di basso di Ron McClure, essenziali tocchi di archi, la chitarra svisata
di Chris Spedding a commentare incessantemente il racconto - come sull'album
precedente anche qui Mantler non suona. Esemplari le parti vocali, con
un Coyne tipicamente aspro, un Wyatt più leggero, Carla Bley (non)
sorprendentemente versatile. Possibili anche qui un confronto con gli
estratti apparsi su Live, dove l'interpretazione di Bruce dimostra
in quanti modi sia possibile affrontare questo materiale in apparenza
"immutabile".
La frequentazione transatlantica degli uffici Virgin creò contatti
(Coyne, Wyatt) e possibilità di progetti - la Bley dichiarò
di voler incidere un album con la ritmica dei Gong! Fu invece un altro
l'album che andò in porto; Peter Blegvad e John Greaves, fuoriusciti
dagli Henry Cow, si trasferirono armi e bagagli nello studio di Mantler,
sotto la cui supervisione fu inciso Kew Rhone ('76): un vero gioiello,
ristampata non molto tempo fa (su "enhanced CD") dalla Voiceprint.
La Bley incise poi un album di r&b con gli Stuff (con Steve Gadd,
Gordon Edwards e Richard Tee - c'è anche Mantler, naturalmente):
Dinner Music. Mantler realizzò due album di fusion (?):
i già citati Movies ('78) e More Movies ('80), ora
ristampati su un solo CD. E' una musica molto più essenziale e
disinvolta dei suoi dischi precedenti, e certamente non priva di spunti
interessanti. Da parte nostra, ammessa una certa insofferenza per la chitarra
fusion, dobbiamo confessare che fu proprio la sei corde di Larry Coryell
a farci desistere dall'acquisto di Movies; è vero che alla
batteria c'è Tony Williams, il cui lavoro esuberante costringe
però Steve Swallow a fare da ancora, ma il disco ha un po' il sapore
della session occasionale. Coryell è insopportabile sui primi due
brani, e sull'ultimo - che altrimenti sarebbe splendido - pare proprio
non sapere cosa suonare. (Anche Coryell era al concerto dei Cream
di cui sopra, ma evidentemente non ci capi molto.) Sono comunque belli
Movie Three e Four, col synth della Bley. Cento volte meglio
More Movies (che vendette molto meno del primo!): alla batteria
c'è D. Sharpe, musicista essenziale che libera quindi il ruolo
di Swallow; alla chitarra il belga Philip Catherine (qualcuno ricorda
Guitars?), meno funambolico e più bluesy di Coryell; c'è
poi l'arma segreta: il sax tenore di Gary Windo, esuberante e disinvolto
come sempre - ascoltare il suo assolo su Movie Fourteen. L'album
è comunque vario, col quasi-Mingus di Movie Ten e il quasi-spaghetti-western
di MovieTwelve che vanno ad affiancarsi a cose forse più
usuali, impreziosite però dal piano della Bley e dal basso di Swallow,
che prende anche qualche assolo; e c'è anche un arrangiamento molto
à la Stuff di un estratto da Silence, qui presente col titolo
di Will We Meet Tonight?
(Anche qui un'appendice: Windo è rintracciabile su European
Tour '77 della Bley, con Hugh Hopper ed Elton Dean - ricordiamo ancora
quella bella foto sulla copertina interna - e su Musique Mecanique.
Il compianto sassofonista incise anche un album solo, Dog Face ('82),
proprio nello studio di Mantler, ringraziato in copertina insieme alla
consorte.)
A questo punto accadde l'impensabile: la Bley si prese una cotta per il
punk e compose una serie di canzoni di tre-minuti-tre, tramutando la sua
band jazz in un gruppo rock chiamato Penny Cillin and the Burning Sensations
(!). Queste canzoni vennero poi pubblicate su un album uscito come Nick
Mason's Fictitious Sports ('81, in catalogo Sony), inciso da Mantler
nel suo studio - c'è anche lui, naturalmente, oltre a Mason, Wyatt,
Windo, Spedding, Swallow. Ma i legami sono molteplici, degni di un Family
Tree di Peter Frame: Mason aveva prodotto You dei Gong, Rock
Bottom di Wyatt e aveva partecipato con più ruoli a The
Hapless Child ('76). Logico, quindi, che Mantler lo chiamasse a suonare
su Something There ('83), altra ristampa. L'album (che pare dovesse
intitolarsi Michael Mantler - Dead quale facezia (!), venendo subito
dopo Carla Bley - Live! - il che spiega perché la foto di
Mantler in copertina è orizzontale (!), è non poco partecipe
di atmosfere pinkfloydiane: fu infatti missato nel loro studio. La chitarra
è quella di Mike Stern, qui usato molto meglio di quanto non avesse
saputo fare allora Miles Davis; c'è il piano della Bley, il basso
di Swallow, la tromba, speso sovrincisa, di Mantler; ci sono gli archi
della London Symphony Orchestra arrangiati da Michael Gibbs, talvolta
con un po' di miele in eccesso. Per strepitosa cura dei suoni e dei missaggi
è l'album più "rock" di Mantler, assai nevrotico,
assume a volte tinte paradossali - vedi i riferimenti al dancefloor
di Nineteen, e il muoversi del basso dai 3'30" ai 4'.
"Il
lavoro di un uomo che non ha visto la luce del giorno in vent'anni":
così l'enciclopedia jazz sopra citata a proposito di Alien
('85) - li avranno mai ascoltati gli Univers Zero? E' la quadratura del
cerchio: linguaggio asciutto, timbriche sintetiche e scure, sequencer,
piste multiple di Linn Drum (i rullanti con cordiera, i piatti stridenti),
i classici suoni campanulari della sintesi in Fm della Yamaha DX7, i ronzii
dell'Alpha Synthauri. Il disco vive di contrasti feroci e di un'accentuata
suspance, con la tromba di Mantler - parca e misurata come sempre - a
stagliarsi sull'orchestra. E ci piacerebbe che l'ascoltatore si
soffermasse sul lavoro di Preston, che ha ben saputo sfruttare del macchinari
tutto sommato semplici. Di lì a poco ritroviamo Preston, con Greaves,
Bruce, Mason, Mantler e il chitarrista Rick Fenn, su Live ('87),
album che può forse costituire un'ideale summa.
La storia ci dice poi di un ritorno all'Europa. La discografia successiva
si situa al di fuori delle coordinate di questo piccolo ritratto, e può
essere indagata partendo dai tesi aforismi di Many Have No Speech
('88). La parola, adesso, passa al lettore.
- Beppe Colli
|
|